Corpi migranti: quelli che aiutano a elaborare il “lutto impossibile”
Un reportage fotografico di Max Hirzel, esposto a Biella dal 5 al 30 aprile, dedicato ai tecnici e ai familiari che lavorano per dare un nome a chi è scomparso nelle traversate verso l’Italia. “Perché bisogna avere un corpo per accettare la morte”
Nel 2011 a Bamako (Mali) il fotografo e giornalista Max Hirzel intervista Alpha, un giovane camerunense in viaggio verso l'Europa. “Nel deserto - gli dice Alpha - vidi una tomba, era di una ragazza di Douala, e mi chiesi se suo papà e sua mamma, i suoi fratelli e le sorelle sapevano che la loro bimba è là”. Da queste parole inizia un percorso che porterà Hirzel ad esplorare un argomento di cui nessuno allora si interessava: cosa succede ai corpi dei migranti morti nel Mediterraneo?
Il percorso lo porta da piccoli cimiteri siciliani e riti di sepoltura tra improvvisazione e compassione, ai laboratori del Labanof, il laboratorio di Antropologia forense dell'università di Milano diretto da Cristina Cattaneo che coordina le diverse equipe, tra cui lo staff del Policlinico di Palermo, dove giovani tecnici di autopsia cercano di dare un nome ai resti di quei poveri corpi. Passa attraverso le storie di Angelo Milazzo, addetto della procura di Siracusa che ha inventato un suo metodo per rintracciare le famiglie ed avere dati da confrontare; dell'avvocato siriano Mohamed Matok, che grazie a Milazzo ha ritrovato i resti del fratello ed è volato a Catania per pregare sulla sua tomba; e di molti altri.
Ne nasce un reportage fotografico unico nel suo genere, fatto di immagini forti che evocano prima di tutto rispetto e silenzio. È intitolato “Corpi migranti” ed è diventato ora una mostra che sarà inaugurata il 5 aprile a Biella presso la Cittadellarte Fondazione Pistoletto (via Serralunga, 27), dove resterà aperta fino al 30. La mostra è realizzata con la collaborazione, tra gli altri, del Centro di servizio per il volontariato di Vercelli-Biella. In merito, ospitiamo di seguito un articolo dell’autore.
Nelle stanze del laboratorio di medicina legale del Policlinico di Palermo l'aria è rarefatta, l'odore pungente. Sulla porta di un frigorifero è appeso un foglio bianco con la scritta “ossa migranti, 52”. Il frigo contiene campioni biologici di 52 corpi, vittime del naufragio datato 10 Agosto 2015. Su un tavolo 52 piccoli cilindri numerati sono deposti in un vassoio di alluminio, sembrano ossibuchi, sono sezioni di femori che, ulteriormente sezionati e osservati al microscopio, aiuteranno a determinare il range d'età delle vittime. Giovani, senza dubbio, così come i tecnici di autopsia del laboratorio chiamati ad esaminare quei corpi. Colpiscono la passione e il tatto con cui questi ragazzi svolgono un compito così strano, duro ma anche in qualche modo delicato. Tutti loro hanno accesso a un punto di osservazione del “fenomeno immigrazione” del tutto particolare.
Secondo la ricerca condotta dall'università VU di Amsterdam nel contesto del progetto “The human cost of border control”, tra il 1990 e il 2013 sono 3.188 i corpi di migranti recuperati dalle autorità dei paesi del sud Europa, 1.183 in Italia; pochi, comparati alla stima di circa 25mila vittime nello stesso periodo. Oltre i due terzi dei corpi trovati giacciono senza nome, non identificati.
Qual è il percorso dei corpi ritrovati, quali azioni vengono poste in atto per identificarli? Le prassi sono le più diverse nel tempo e variano anche in base ai luoghi di ritrovo e alle procure incaricate. Un vero protocollo per gestire un'anomalia come questa non c'è. Di norma non è l'identificazione al centro dell'inchiesta, mirata invece a determinare le cause della morte quando c'è la possibilità che non si tratti di annegamento; in questi casi la procura richiede l'autopsia, altrimenti ci si ferma a un esame autoptico. I tentativi di identificazione si riducono a interrogare in proposito i sopravvissuti, soprattutto in passato.
Solo dal 2013, a seguito dei grandi naufragi del 3 e 11 ottobre 2013, diventa prassi la raccolta di campioni biologici per un eventuale futuro esame del Dna. Prassi che trovano nuovo slancio con l'apparato messo in atto per il naufragio peggiore, la data è 18 Aprile 2015. Un anno dopo il barcone viene recuperato dalla Marina italiana a 370 metri di profondità e condotto alla base Nato di Melilli. Dalla stiva vengono estratte 458 body-bags. In due tende equipaggiate nell'hangar della base inizia un lavoro senza precedenti, nell'arco di 5 mesi tutti i corpi vengono esaminati, si tratta di autopsie mirate all'identificazione secondo la procedura DVI (Disaster Victimis Identification). Coordina il Labanof di Milano, partecipano equipe di medici legali di tutta Italia, in primis la squadra di Palermo che ha un'esperienza consolidata.
Al tempo del recupero, poco mediatico, sorgono comunque polemiche: “perché spendere soldi per dei morti, tanto nessuno li cerca”. Invece no, dall'altra parte del mare i famigliari cercano, come possono. Nel Saloum, sud del Senegal, i fratelli di Mamadou, presumibile vittima di quello stesso naufragio, hanno speso parecchio per visitare decine di marabutti, sorta di veggenti, alla ricerca di una qualsiasi verità. “Dentro di noi sappiamo che non c'è più, ma se non hai la certezza non c'è pace”. La conferma viene da Miriam Orteiza, psicologa della Croce Rossa Internazionale: “Affrontano un lutto impossibile”, spiega. “Bisogna avere prove per accettare la morte, per poter elaborare il lutto devono avere un corpo”.