Syed, dall’Afghanistan a Roma: “la voce dei rifugiati si deve sentire”
Volontari inattesi/4. A 10 anni è fuggito dai talebani. Oggi in Italia, laureato e con una famiglia, si batte con l’associazione Unire perché gli esuli possano autorappresentarsi e perché siano ascoltati nelle decisioni che li riguardano direttamente
Digitando su Google il nome di Syed Hasnain si trovano alcune sue interviste a quotidiani nazionali, siti web e anche programmi televisivi, tra cui “Stati generali” di Serena Dandini, in cui si racconta la straordinaria storia di quest’uomo che all’età di 10 anni è fuggito dall’Afghanistan e dai talebani, che in Italia ha trovato non solo una patria in cui costruire una vita degna di questo nome, ma anche il suo riscatto.
Quello che invece è stato poco approfondito, è che Syed, oggi 31enne, laureato e con una famiglia, per circa 11 dei suoi 12 anni di vita in Italia ha lavorato con i richiedenti asilo, i minori stranieri non accompagnati, le vittime di tortura, nei centri di accoglienza, con la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Syed ha partecipato alla ricerca “Volontari inattesi” di CSVnet e Centro studi Medì, ed è un altro degli esempi di capovolgimento dell’immagine tipica delle persone di origine straniera, viste solo come percettori di aiuti e mai come vera e propria risorsa, anche nel volontariato.
Syed Hasnain
Syed è il presidente dell’Unione nazionale italiana per i rifugiati ed esuli (Unire) e il suo impegno ha come primo obiettivo favorire l’auto-rappresentazione dei rifugiati e di cambiare la narrativa intorno alla loro immagine e ai temi che li riguardano.
“Sono anche membro di una rete europea dei rifugiati – ci racconta – e posso dire che sia in Italia che in altri paesi del continente c’è un’immagine negativa di queste persone, che li rappresenta solo in modo ‘passivo’, come quelli che hanno bisogno di assistenza. Il mio obiettivo, con l’associazione di cui faccio parte, è proprio quello di raggiungere l’inclusione di queste persone nei processi decisionali, nelle politiche che vengono assunte e che impattano sulla loro vita. Vogliamo essere consultati e ascoltati nelle decisioni che ci riguardano: quando si parla di rifugiati ci deve essere un rifugiato a parlare”.
Oggi la rete di Unire conta 50 membri, presenti in alcune città italiane, di cui 7 compongono il Consiglio direttivo: “oltre a me – dice Syed – gli altri consiglieri sono un afghano, un sudanese, una signora curda e una eritrea, un nigeriano e un algerino; ognuno di noi ha i suoi impegni lavorativi e questo invece è il nostro impegno volontario”. Ora come ora l’ostacolo più grande nell’attività di Unire è la distanza, l’essere ognuno in diverse città; negli obiettivi del prossimo futuro c’è infatti quello di incrementare il numero dei componenti, per essere presenti su tutto il territorio italiano. “Quando parlo di questo progetto ad altre persone rifugiate trovo sempre appoggio ed è per questo che vogliamo continuare”.
Ma Syed è riuscito a portare dalla sua parte anche molti italiani incontrati lungo il cammino. “Quando gli parlo della nostra rete e della nostra idea, gli italiani rimangono sorpresi ma ci appoggiano e sono convinti che sia necessario conoscerci, sapere chi siamo, cosa facciamo, perché a livello mediatico ciò che si vede sono solo gli sbarchi, i centri di accoglienza, le strumentalizzazioni”.
Secondo Syed un aiuto potrebbe arrivare proprio dalle altre associazioni, dalle Ong “che hanno anni di esperienza in materia di asilo e che potrebbero rappresentare una valida alleanza per noi”. Ma l’attuale immagine degli stranieri, e dei rifugiati in particolare, resta un grande scoglio da superare. Parlare di rifugiato oggi vuol dire parlare di assistenza, centro di accoglienza, dei 35 euro ecc. “Il nostro obiettivo – continua Syed – è cambiare questi stereotipi, cercando di essere in prima fila sulle tematiche dei rifugiati”.
Un segnale positivo secondo Syed arriva dal fatto che, ultimamente, comincia a intravedersi un maggiore coinvolgimento dei rifugiati nella vita pubblica. Rispetto al passato, inoltre, ci sono più bandi o fondi dedicati alle associazioni dei rifugiati. “Il sostegno, delle persone comuni, così come di chi si occupa di questi temi per noi è fondamentale; è importante per organizzare iniziative, per avere visibilità. Come ha fatto il Csv del Lazio, che abbiamo scoperto grazie a un’altra associazione e che fin da subito si è dimostrato molto disponibile”.
Per spiegare il senso del suo fare volontariato Syed ricorda la sua recente partecipazione a Bruxelles a un summit europeo dei rifugiati e dei migranti da tutti i paesi europei, organizzato da loro stessi: “Perché questi sono i rifugiati, - spiega: - persone che in qualche modo vogliono ricompensare il paese che li ha accolti. Trovare protezione e accoglienza in un paese straniero ti trasmette la responsabilità di dover fare qualcosa per la società che ti ospita. Noi ci siamo, vogliamo dare il nostro contributo. Ma per poter essere coinvolti, c’è bisogno di spazi di inclusione, e chiediamo sostegno per questo agli amici della società civile”.
L’impegno volontario di Syed Hasnain e di Unire è riuscito a proseguire, seppur parzialmente, anche durante il periodo di emergenza provocato dal Coronavirus. In questi ultimi mesi la loro attività di informazione e promozione è andata avanti sul web; alcuni dei componenti dell’associazione hanno garantito assistenza legale a distanza ad altri rifugiati e si sono occupati di tradurre in diverse lingue le disposizioni normative che via via si sono succedute, assicurando così la loro comprensione anche a chi è in Italia da poco.
(Intervista integrale realizzata da Ksenija Fonovic, Csv Lazio. Redazione di Alessia Ciccotti)
La ricerca Volontari inattesi - L’impegno sociale delle persone di origine immigrata, a cura di Maurizio Ambrosini e Deborah Erminio (Edizioni Erickson, pagg. 352), viene presentata on line il 22 giugno 2020. Leggi tutti gli aggiornamenti nel focus di CSVnet.